Questo saggio critico si propone di porre l’attenzione, a partire
dall’analisi di due tesi di dottorato conseguite presso il dipartimento di Architettura, teorie e progetto dell’Università
degli studi di Roma “Sapienza”, sull’interpretazione delle buone pratiche per
affrontare il problema dello sviluppo della città e la sua progettazione nel
complesso.
Per quanto riguarda la prima tesi presa in esame, si tratta del: “Progetto del suolo. La trasparenza delle linee di terra nella città
contemporanea.”, di Federica Tegolini, dottoranda dell’XI ciclo.
Obiettivo della sua ricerca è stato quello di spostare l’attenzione dal suolo
naturale, considerato come il punto d’incontro tra artificio e natura, e il
suolo rappresentato dalla “strada”: luogo del vivere della comunità.
La strada rappresenta la moltitudine di suoli e genera sia addizione
che sottrazione di essi. La sua presenza come demarcatore dello spazio
determina l’identità del soprasuolo quando occupa il ruolo di “addizione”; nel
momento in cui si immerge nel sottosuolo, entra in relazione con il terreno
compatto e sarà un “sottrattore” di suoli.
Nella città moderna e contemporanea il suolo determina due strategie
per la progettazione; la prima, per la realtà della città moderna, è quella di
costruire suoli sovrapposti. La visuale dello spettatore è in pianta ed è
questa che ne definisce la sovrapposizione. La strada si annulla nella città su
pilotis di Le Corbusier, al contempo genera un’addizione di spazio quando si
innalza nel definire il piano di Algeri ed entra nelle case e negli isolati
nella Città Nuova di Sant’Elia.
La seconda, per la città contemporanea, si realizza nella sezione e
quindi nella definizione di suoli trasparenti, mettendo tutto in comunicazione.
Le parole chiave sono: trasparenza e dinamicità. Lo sguardo e non più
il corpo è l’elemento che interpreta lo spazio, spostandosi dalla superficie al
volume.
Un altro elemento nella progettazione che viene messo in luce è la
distanza critica; il vuoto genera un’attrazione magnetica tra due elementi: A e B.
Essi si richiamano e, ravvicinati, generano C
il quale ne specifica la relazione. In ciò avviene l’addizione di spazio.
La strada genera proprio quello spazio, quell’elemento C, che permette di interpretare A e B
sia come elementi a se stanti che come un’unità. Progettare all’interno di un
nodo, come i Transferia di Koolhaas o nello spessore di un viadotto come il
Bridge of House di Steven Holl, trasformano l’infrastruttura in suolo.
L’infrastruttura non rappresenta più un mero segno sul terreno
naturale che facilita il raggiungimento da un punto ad un altro, ma è
soprattutto un luogo del vivere e dell’abitare e l’attenzione potrebbe
spostarsi al problema delle strade periferiche, vero e proprio muro che spesso
dividono i luoghi e, ancora più frequentemente, si trasformano in un limite
fisico agli usi possibili della città nei confronti degli individui più deboli
(bambini e anziani).
Dunque, non si potrebbe focalizzare l’attenzione alla dimensione del
quartiere, piuttosto che alla grande arteria? La strada, a livello del
quartiere, potrebbe trasformarsi in un luogo pubblico che soddisfi l’esigenza
del cittadino che lo vive?
È ciò che viene parzialmente affrontato dalla seconda tesi presa in
causa e sulla quale verrà posta maggiormente attenzione per la delicatezza del
tema affrontato: “Il progetto del margine
della città contemporanea – figure, declinazioni, scenari”, di Marina
Macera, dottoranda del XXV ciclo.
Nella dissertazione viene ricercato il significato del termine margine
come luogo per sperimentare nuove spazialità urbane, perché rappresenta un
ottimo potenziale per ridisegnare moderne relazioni per ricomporre l’organismo
urbano.
Il margine viene spesso inteso come confine, quindi come qualcosa che
determina una fine di una realtà per dare spazio all’inizio di un’altra. Così
si sposta l’attenzione al modo in cui l’uomo abbia delimitato il territorio
nella sua evoluzione: dalla preistoria all’era moderna; se i primi confini
erano per lo più labili, con la formazione della città questi si concretizzano
trasformandosi in veri e propri elementi quasi invalicabili come le mura, che
al contempo saranno proprio le protagoniste della vita cittadina.
Traslando questo concetto al giorno d’oggi e quindi alla città
contemporanea, il margine è ben visibile quando si passa dalla città storica
alla città in trasformazione, quella periferica che manca di identità e di un
polo dove si concretizzano gli “affari” della vita cittadina.
Ma è proprio la realtà della città periferica che permette di far
sbocciare il suo carattere e il suo potenziale. Nella città in generale è
presente un confine invisibile, ossia il confine sociale che può determinare il
simbolo di inclusione o esclusione collettivo. Da ciò nasce la frontiera che,
come viene spiegato ampiamente nella tesi, determina al contempo sia lo spazio
di relazione che d’incontro, ma può anche interpretare uno spazio di esclusione
quando questa si concretizza divenendo un vero e proprio muro.
Le nuove mura urbane sono certamente le infrastrutture che marcano il
terreno con la loro presenza decisa e divengono difficili da valicare
soprattutto quando queste sono abbandonate trasformandosi in luoghi decisamente
degradati e inaccessibili.
La città contemporanea non è solo luogo delle infrastrutture che ne
limitano i rapporti tra le parti, ma anche il luogo in cui si identifica la presenza
delle isole. Non esiste quindi una stratificazione orizzontale come nella città
storica, ma è presente un vero e proprio arcipelago metropolitano tra i quali
componenti, troppo frequentemente, non intercorre alcuna relazione.
Così il margine può essere assimilato negli interstizi di queste isole
ed è identificato proprio nel vuoto urbano il quale può essere trasformato per
generare nuove connessioni.
Connessioni che non si realizzano solo nella trasformazione dello
spazio, ma anche nella vita quotidiana della società che va potenziata.
Non è da sottovalutare il rapporto con il paesaggio del quale la città
diffusa ne ha decisamente influenzato la conformazione, protendendosi verso la
campagna mescolandosi ad essa. Quindi un potenziale intervento sulla città
diffusa deve valorizzare la sinergia con il paesaggio e salvaguardarlo.
Alla luce delle valutazioni prodotte nella tesi in questione, si può
pensare che sia utile, per un buona riuscita della pianificazione del
territorio, mettere in campo delle strategie che accompagnino l’iter fino alla
progettazione del singolo edificio, passando da una scala urbana ad una
architettonica.
Il primo passo da compiere è verso l’individuazione di “contesti” e di
“figure territoriali”. I primi sono riconosciuti nelle parti del territorio
contraddistinte da medesimi caratteri di struttura, individuabili attraverso
una lettura selettiva dei rapporti tra: forma del suolo (struttura
geomorfologica), trame e permanenze (struttura degli elementi architettonici e
dei beni), edificato ed uso del suolo (struttura insediativa), collegamenti
(struttura della mobilità), risorse naturalistiche (strutture ecologiche). Le
seconde, d’altra parte, rappresentano degli strumenti di sintesi di una realtà
più complessa e devono rappresentare gli elementi cardine di un’operazione di
trasformazione attraverso cui prendono corpo le azioni di progetto.
Dopo questa attenta analisi si mettono in campo le idee per definire
una serie di strategie che, in una sintesi, attuano la ricucitura del
territorio. Questa può avvenire attraverso l’individuazione di quei cosiddetti
“vuoti urbani”, ossia spazi interstiziali nel costruito poroso della periferia
in cui sviluppare servizi per la comunità in un’azione congiunta tra tessuto
edilizio e spazi agricoli, come viene puntualizzato anche dalla tesi in esame
come modo per contenere l’espansione della città.
Un altro metodo per frenare tale espansione è quello della
progettazione del margine attraverso la sua rinaturalizzazione (greening, serre
e orti comuni). Per quanto riguarda quelle infrastrutture degradate e in disuso
queste si trasformano in grandi aree verdi, spazi pubblici che vengono
ricollegati alla città attraverso una nuova tipologia di mobilità sostenibile
che si avvale del sistema delle infrastrutture verdi.
Guardando la realtà del margine della città e quindi della periferia,
sorge spontanea una domanda. Oggi abbiamo bisogno di un tipo di pianificazione
e, quindi, di progettazione ibrido in cui è necessaria una trasversalità delle
competenze che coinvolgano più realtà contemporaneamente; occorre porre
attenzione alle diverse domande degli attori coinvolti (aziende, cittadini,
associazioni, realtà multietniche ecc.) e alla politica di azione locale che
trovi risposte differenziate in relazione ai contesti analizzati; quanto questo
cambio di prospettiva è necessario per rinnovare la visione dell’assetto di un
territorio già fortemente abitato, come quello periferico, che presenta però
disagi sia in termini di servizi che di mobilità?
Questa è la domanda che è stata posta a Marina Macera, autrice
dell’ultima tesi che ho analizzato e che, a mio avviso, tenta di dare delle
risposte a tale quesito.